Convinzioni affermate, differenze assunte
A cura di Jean Tonglet
Mentre la questione dei rapporti fra fede e società ha fatto, in questi ultimi mesi, ritorno nell’attualità, non solamente in Francia o negli Stati Uniti d’America, ma in molti altri paesi, mentre sembra che si debbano affrontare i sostenitori dello «choc delle civiltà» e quelli del dialogo fra tutte le credenze religiose e le convinzioni filosofiche, il pensiero di padre Joseph Wresinski sul pluralismo religioso e filosofico può apportarci degli elementi di riflessione? Traduzione dell’originale francese, Rivista “Quart Monde”, febbraio 2005. :
Fin dalle sue origini, il Movimento ATD Quarto Mondo fu segnato dalla diversità di coloro che lo costruirono. Padre Joseph stesso era «plurale», di padre polacco, di madre spagnola, nato in Francia. Le famiglie che egli raggiunse a Noisy-le-Grand erano, anch’esse, diverse: francesi della città o della campagna, di origini straniere (spagnole, tedesche, algerine e altre), zingare per alcune. Di confessioni diverse anche. I volontari che hanno risposto ai primi appelli di padre Joseph erano anch’essi molto diversi. Per nazionalità: belga, olandese, tedesca, danese, inglese, svizzera, francese, … Per confessione religiosa o convinzioni filosofiche; cattolica, protestante, anglicana, ebrea, agnostica o atea. Per origini sociali, dal mondo operaio all’aristocrazia.
La diversità spirituale è forse stata meno manifesta mentre il Movimento si è sviluppato in Europa e negli USA: i cristiani, di diverse tradizioni, vi sono diventati maggioritari, anche se nessuna statistica è mai stata condotta, meno male, su tali appartenenze. La secolarizzazione però (cioè l’abbassamento generale della pratica religiosa nelle nostre società) non ha risparmiato il Movimento. Per un certo numero di volontari e di altri membri di origine cristiana, questo riferimento è diventato più culturale che religioso, quando essi stessi non sono arrivati fino all’abbandono della fede.
Questa diversità è più manifesta ancora oggi con l’arrivo nel Movimento dei primi volontari provenienti da altri culture, che vengono da altri continenti e che portano con loro altre pratiche religiose o confessionali. Diversità di culture, di storie, di maniere di pensare e di agire. Poiché anche quando questi volontari africani, asiatici o latino-americani confessano la fede cristiana, non la vivono allo stesso modo né con gli stessi riferimenti dei volontari occidentali.
«Io sono prete»
Padre Joseph aveva un’identità affermata: era, come ci ricordava spesso, «prete della Chiesa cattolica, apostolica e romana». Controcorrente a certe tendenze della sua epoca, padre Joseph ha sempre rivendicato e assunto la sua identità: «Io sono prete…». Tollerava male il comportamento di alcuni preti, religiosi o religiose che si presentavano, particolarmente all’esterno, quando erano in rappresentanza del Movimento, senza portare un segno distintivo del loro stato. Se, all’interno delle mura del Movimento, egli si vestiva con un pullover o in camicia, quando andava all’esterno, in un ministero, al Consiglio economico e sociale, alla televisione, alle Comunità europee o all’Unesco e persino al 17 ottobre 1987 al Trocadero, si dava pensiero di vestirsi con l’abito nero, sfoggiando sul rovescio del collo una croce discreta indicante il suo stato sacerdotale.
In ciascuno degli avvenimenti pubblici del Movimento, egli ha vegliato, e spesso preso su se stesso, un tempo più specificatamente “spirituale”. Ai colloqui all’Unesco negli anni 60, animò lui stesso un gruppo di lavoro, al quale parteciparono un rabbino, degli amici protestanti, dei preti, dei religiosi e dei laici. Durante il Congresso dell’Anno del Bambino, animò lui stesso un laboratorio sul diritto alla vita spirituale. Il 17 ottobre 1987, volle che la giornata si aprisse con una celebrazione dell’Eucaristia attorno al Cardinale di Parigi a Notre-Dame. Quando era in viaggio, come prete e allo stesso tempo segretario generale del Movimento, si curava di scrivere nel suo programma l’incontro con i vescovi locali, con i Nunzi apostolici nelle organizzazioni internazionali, come con i leader di altre comunità spirituali diverse dalla sua.
Unirsi attorno ai più poveri
Padre Joseph voleva che tutti potessero unirsi attorno ai più poveri. Era un diritto per tutti e anche un diritto dei più poveri di vedere riunirsi attorno a loro le persone più diverse. Egli testimoniava una grande preoccupazione per coloro che non condividevano la sua fede, e una preoccupazione più particolare ancora per coloro che non avevano alcuna convizione religiosa. Ci sono, ne I Poveri sono la Chiesa, delle pagine edificanti a tale soggetto. E quelli fra di noi che l’hanno conosciuto, sono stati testimoni di questa preoccupazione costante. «Per me, si trattava di un diritto di giustizia di permettere a qualunque uomo, di qualunque fede, idee, cultura, di potere scendere fino ai piedi della scala sociale. […] Ogni uomo deve potere fare della famiglia più povera un polo d’incontro, un agente di liberazione degli altri uomini, una famiglia che salva i suoi fratelli» .
È per questo che egli invitava ciascuno ad andare fino in fondo alle sue convinzioni, ad essere quel che è, pienamente, e a esprimerlo a modo suo, ad essere il ripetitore dei più poveri nei suoi luoghi di appartenenza, nel tempio, nella sinagoga, alla moschea, nella sua loggia o nella suo circolo filosofico. Quando I Poveri sono la Chiesa è stato stampato, e quando il suo titolo, più ancora forse che il suo contenuto, poneva delle domande al volontariato, io lo vedo ancora rivolgersi a un volontario umanista ateo invitandolo a scrivere, anche lui, con le convinzioni che erano le sue, un libro sulle ragioni che lo portavano a rischiare la sua vita a fianco dei più poveri. Allo stesso modo, a varie riprese, egli ha incoraggiato alcuni fra di noi a prendere contatto con il proprio tempio, sinagoga, con il Consiglio Ecumenico delle Chiese, etc.
«L’unità si manifesta già, noi la scopriamo attorno a dei villaggi sotto l’ombra della fame, nell’est del Senegal (…) La troviamo attorno a delle famiglie fra le più screditate per il loro spogliamento, in Tailandia. (…) presso (i più poveri) ci scambiamo il meglio e l’essenziale di ciascuno di noi. (…) (Il Movimento) sarebbe piuttosto un modello di vita o di “convivialità”. Di convivialità nel senso più profondo: tu sei ebreo, io sarò ebreo con te; tu sei musulmano, saremo musulmani insieme; tu non credi in Dio ma credi nell’uomo, verrò con te fino in fondo alla fede nell’uomo. Questo va molto più lontano di un semplice rispetto mutuo» .
Il teologo cattolico Alain Durand scriveva recentemente qualcosa di assai vicino: «Nel concerto delle credenze di tutti gli ordini che possono animare gli uomini, è importante, per la stessa causa di cui ci si deve fare carico, che si tratta di occuparsi, che ciascuno approfondisca le proprie convinzioni, ciascuno raccolga la linfa originaria che nutre la sua tradizione e la faccia conoscere. Tutte queste correnti – religiose, filosofiche o di saggezza – fanno parte del patrimonio comune dell’umanità di cui ciascuno di noi, dove si trova, è responsabile davanti agli altri uomini. Il massone è responsabile davanti al buddista, al musulmano e il cristiano, il cristiano è responsabile davanti al massone; ciascuno è responsabile davanti ad ogni altro di fare conoscere le sue ragioni per agire, indicare le strade mediante le quali egli conserva non solamente delle ragioni di vivere ma anche – e forse è la stessa cosa – delle ragioni di fare vivere» .
Andare incontro alla diversità
L’interconfessionalità che padre Joseph ci chiamava a costruire è più un progetto che una realtà compiuta nell’oggi del Movimento ATD Quarto Mondo. La nostra presenza negli ambienti cattolici è più importante che quella che abbiamo nelle altre chiese cristiane, protestanti e ortodosse. Lo scarto è più grande ancora con l’Islam, il Giudaismo o il Buddismo. Abbiamo troppi pochi contatti con le correnti laiche. I nostri membri provengono principalmente da una cultura e da un terreno religiosi, anche se non sono praticanti.
Noi vogliamo, abbiamo il desiderio di essere un Movimento interculturale, interconfessionale o come leggevo recentemente «inter-convinzionale». Questo desiderio però deve essere una volontà attiva. Non partiamo dal nulla. I 17 ottobre 1996, 97, 98 e 99 a Parigi sono stati l’occasione di un momento inter-religioso sul Sagrato del Trocadero, come nel 1994, quando durante il Congresso delle Famiglie del Quarto Mondo aveva avuto luogo, a New York, un «Interfaith Service». Abbiamo avuto degli incontri con la Moschea di Parigi, con il Tempio Buddista di Créteil, con «Marsiglia-Speranza», piattaforma che riunisce i leader religiosi della città, con la Conferenza Mondiale delle religioni per la Pace, con dei responsabili della Massoneria. Nel 1998 in Belgio, in occasione del 40° anniversario della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, la sezione belga del Movimento condusse una campagna su diritti dell’uomo e grande povertà in collegamento con le Case della Laicità create un po’ dappertutto in Belgio su iniziativa del Centro di azione laica.
Assumere la nostra eredità
In questo dialogo, in questi cammini volontari verso altre correnti di pensiero e di fede, non possiamo snaturare le nostre origini, dobbiamo assumerle positivamente. «Non si scelgono i propri genitori, non si sceglie la propria famiglia» dice la canzone di Maxime Le Forestier. È vero per ciascuno di noi, non abbiamo scelto di nascere in un ambiente cristiano, laico, buddista, animista, agnostico o altro. È un dato della nostra vita. Allo stesso modo, è un dato della vita del Movimento il fatto di essere stato creato in Francia (il che determina molti aspetti del suo pensiero), da un prete di nazionalità francese, nato da un padre polacco e da una madre spagnola, cresciuto lui stesso in delle condizioni di vita segnate dalle privazioni e dalla vergogna, inviato dal suo Vescovo, al Campo di Noisy-le-Grand, dove è arrivato il 14 luglio 1956 all’età di 40 anni. Non si può riscrivere la storia: bisogna prenderla come è e viverci, se possibile, in pace. Se padre Joseph avesse avuto un’altra storia, altre radici, se avesse creato il Movimento negli USA o in Africa, in Italia o in Tailandia, la matrice del Movimento sarebbe altra. Dobbiamo partire da questo e non serve niente, a parere mio, nascondere questa storia, passare sotto silenzio, per esempio, la dimensione sacerdotale del fondatore del nostro Movimento e l’ispirazione che egli attingeva nel messaggio evangelico.
Nascondere le cose, passarle sotto silenzio, sarebbe più controproducente e più pericoloso anche che non dirle e assumerle in tutta semplicità. Presto o tardi in effetti, i nostri interlocutori scopriranno questa dimensione spirituale della vita di padre Joseph, casualmente per una lettura, un avvenimento, un passaggio a Méry-sur-Oise dove è sepolto in una cappella che egli stesso aveva fatto costruire. Si domanderanno allora, quali siano le loro convinzioni personali, perché questo era stato loro nascosto. Ne avevamo vergogna? Ci sono delle cose nascoste in questo, per cui bisogna nasconderlo? Padre Joseph sarebbe stato uno al margine o un fuorilegge della sua Chiesa? Il dialogo non ne sarebbe facilitato, ben al contrario.
Lo scrittore Jean-Claude Guillebaud, nel suo libro Le goût de l’avenir evoca proprio la necessità del dialogo sulla base di credenze affermate e di differenze assunte: «Il monolitismo confessionale appartiene al passato. Questo vuol dire che la coabitazione è, in ogni modo, la sola ipotesi immaginabile per l’avvenire. La questione è tutta di sapere quale forma quest’ultima possa prendere. Conflittuale? Governata dall’indifferenza? Mollemente sincretista? Al contrario di quel che si avanza talora, si potrebbe dire che la situazione è oggi più favorevole che mai al dialogo inter-religioso. La ragione di ciò è semplice: delle credenze riaffermate dialogano più facilmente fra di loro che delle “religioni” inquiete, la fede si apre tanto più naturalmente all’altro quanto più è vivente, non abitudinaria e più sicura di se stessa. Il dialogo vero – quello che non si confonde con una “gentilezza” sdolcinata e demagogica – esige che ciascuno definisca preliminarmente, a volto scoperto si potrebbe dire, la natura della sua fede, del suo agnosticismo o del suo ateismo. Si è lontani da una qualunque rimpatriata “babelica” in una vaga religiosità o un “umanismo” sincretista ed evanescente. In questa ipotesi – e non solamente in questa ipotesi – il famoso scambio inter-religioso raggiunge il principio di tolleranza, per come lo definiva Pierre Bayle. Esso fa di ciascuna convinzione l’arco di spinta, solida, di una volta gotica, cioè di una casa comune. Ancora meglio, rende immaginabile, non solo la semplice coabitazione ma l’arricchimento reciproco, grazie a (e non malgrado) una differenza chiaramente manifestata» .
I più poveri hanno bisogno di persone che abbiano delle convinzioni forte
Nel settembre 2001, in occasione dell’incontro annuale “Uomini e religioni”, organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio, un laboratorio riuniva Amos Luzzato, Presidente della Comunità ebrea d’Italia, Mohammed Amine Smaïli, teologo musulmano marocchino, Vincenzo Paglia, vescovo italiano,e Mario Soares, prima presidente del Portogallo, agnostico. Evocando la situazione tragica del nostro mondo, Amos Luzzato richiamava a «ritornare a parlare alle coscienze. E non si può più farlo nel quadro di gruppi chiusi (le parrocchie, i templi, le sinagoghe, le moschee, etc.). Bisogna formare delle aggregazioni nuove, aggregare mentre il nostro mondo disgrega». Mario Soares ricordava che egli stesso era «arrivato alla politica perché avevo dei valori, di valori che vengono dalla tradizione greco-latina, giudeo-cristiana, da modi di pensare diversi…». Egli si ritrovava in quel che Teilhard de Chardin chiama la civiltà dell’universale, uno zoccolo di valori comuni che ci riunisce tutti al di là delle nostre convinzioni religiose o filosofiche. Il Vescovo Paglia diceva: «Non dobbiamo più né essere dei religiosi in apparenza, in superficie, né dei laici “di professione”, dobbiamo esser più testimoni, più radicati nei nostri fondamenti: dei musulmani che conoscono il Corano e ne vivono, dei cristiani che conoscono la Bibbia e ne vivono, degli ebrei che conoscono la Torà e ne vivono, dei laici che conoscono veramente il significato dei valori di libertà, di uguaglianza e di fraternità e che ne vivono». E Amos Luzzato ancora: «Abbiamo bisogno di persone con delle convinzioni forti». Infine, Mario Soares, concludendo, diceva: «Siate voi stessi, siate autentici». È a questa autenticità che coloro che vivono giorno dopo giorno la tragedia della miseria ci chiamano: più che degli uomini e delle donne “di buona volontà”, essi hanno bisogno di persone dalle convinzioni radicate che si pieghino solo ad un’unica consegna: «Fare dell’uomo più sprovvisto il centro, [al fine di] abbracciare tutta l’umanità in un solo uomo» .